Fragilità e libertà

- Fragilità e libertà -


Matteo, 12 anni, è un ragazzino vivace e solare, come tanti della sua età. È magro, pelle olivastra, capelli neri, leggermente mossi. Ha due sorelle, poco più grandi, con le quali ha poca confidenza, ma va d’accordo, e due genitori, che gli danno fiducia quanto basta, perché non si senta oppresso. A scuola è bravo e lo studio non gli dispiace. Studia musica e gioca a calcio. Il pomeriggio, dopo aver fatto i compiti, si vede con gli amici, nella piazzetta del paese. Tremila abitanti o poco più, ma non manca l’essenziale e l’estate si riempie di gente.

Siamo a giugno, poco prima del tramonto, e Matteo è sul terrazzo di casa, che ridà sulla vallata, che guarda il cielo farsi rosso sugli Appennini abruzzesi. È uno spettacolo consueto, ma sempre bello a vedersi. È lì sereno, che aspetta che sia pronta la cena e, d’un tratto, gli sparisce il mondo attorno. Egli solo reale, immerso tra cose divenute senza sostanza. Un vuoto che è peggiore del buio. Con la sensazione angosciante, che diventa paura e, poi, terrore, di essere, ma non esistere, perché, improvvisamente, non c’è più un dove. E rimani solo, perché a morire non sei tu, ma l’Universo intorno a te. Una sorta di game over, nel quale sei la pallina di un flipper che si spegne all’improvviso.

Gli era capitato qualche altra volta e il suo cuore era andato all’impazzata. Matteo, quel giorno, non si oppose, pensò che tanto nulla avrebbe potuto, e chiuse gli occhi. Se si stava spegnendo tutto, preferiva avvenisse al buio.

Qualche istante dopo, quando li riaprì, era di nuovo tutto lì. Turbato, ma sollevato, rientrò in casa. Non voleva restare solo un attimo di più, tanto era stato il senso di abbandono. Cenò ed uscì con gli amichetti, come al solito. Quella notte dormì, nonostante tutto. E non ne parlò con nessuno.

Accadde altre volte, anche durante gli anni del Liceo. Fu in maniera discontinua, si alternarono periodi in cui gli episodi furono più ricorrenti, ad altri nei quali lo furono meno o, perfino, assenti. Il ragazzo aveva imparato a consegnarsi a quel nemico sconosciuto, sottraendosi, di fatto, inconsapevolmente, al circolo vizioso della paura che si nutre di sé stessa.

Quando, poi, tutto finiva, era grato all’Universo di esserci ancora e pensava a ciò che di più terreno gli venisse in mente, che fosse un buon piatto di pasta, un goal o una bella ragazza. Non rimuoveva, metteva nel cassetto e chiudeva a chiave. Apriva quando si sentiva sicuro e richiudeva al primo spasmo di stomaco. Matteo voleva capire e cercava risposte, ma rifuggiva la paura, come la farfalla la tela del ragno.

Cercò aiuto nei suoi pochi mezzi di liceale, benché brillante, che studia fisica e filosofia. Si affidò, così, di volta in volta, ad Aristotele e Platone, Hegel e Kant, Einstein e Bohr. Il relativismo radicale del fisico danese, secondo cui questo mondo esisterebbe perché esiste l’uomo, essendone una sua proiezione, gli sembrò una buona risposta alle sue domande, sempreché avesse bene inteso il concetto. In effetti, era quella la sensazione che provava, quando, attorno a lui, tutto sembrava svanire.

Durò poco, perché l’idea di un mondo che esisteva solo nella sua mente non gli piaceva affatto. Molto meglio pensare, come si legge oggi nel web, che quando Matteo era ragazzo, però, ancora non c’era, che “la luna è lì, anche se io non la guardo” (Einstein a Bohr). Il fatto che la materia potesse diventare luce, senza, tuttavia, perdere la sua identità, era per lui rassicurante. Anche perché ad affermarlo era la più illustre fra le menti.

A Matteo, però, non bastò. E fu così che la scienza soggiacque alla fede. Era un ragazzo vivace ed esuberante che aveva poco del chierichetto, ma non mancava di andare a messa la domenica, di frequentare la parrocchia o di dire grazie al Signore nelle sue preghiere. E poi, in fondo, l’architetto del mondo di Einstein gli sembrava fosse niente affatto in contraddizione con quel Dio cristiano che sconfigge la morte con l’amore, mettendo l’uomo al centro del suo disegno.

Il ragazzo era cresciuto con la nonna. E quando ebbe ad affrontare l’atavica questione dell’umana fragilità, lo fece nel modo in cui avrebbe fatto lei, se fosse stata al posto suo. Quando lei morì, Matteo aveva 17 anni. Era stata operaia, prima, e contadina, dopo. Bassa e minuta, era una donna tenace che amava ripetere ai nipoti che, se volevano essere liberi, dovevano leggere e studiare. E farlo, se possibile, meglio degli altri. Non per essere meglio di quell’altro, che sarebbe stato inconcepibile per lei che era cristiana e comunista, ma per la propria libertà, che, sempre “se Dio vuole”, come diceva lei, passava, anche, dal quel saperne un po’ di più. E il ragazzo tanto fece, dedicando a lei il voto della sua maturità.

 

 

 

 

 

 

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